Erano le 18. Più o meno. Io passavo il phon sui capelli , Marzia si truccava accanto a me. Questa cosa del phon mentre tu morivi mi tormenterà per molti anni. Perchè stavo facendo una cosa così insulsa mentre la nostra vita andava in pezzi. Ridevamo, io e Marzietta, pensando all’ennesima serata tra chiacchere , battute , ristorante amici. Peppe, Carla, Stefano, Manu e poi il porto con tutti gli altri Ele, Debora, Beatrice, Lorenzo, il Bertini, i gemelli.
Ho sentito l’ambulanza, una sirena lontana. Un piccolo brivido poi non ci ho pensato più. Ero quasi pronta quando è arrivato Riccardo. È rimasto sulla soglia , all’ingresso di casa . Ha chiesto di me, forse aveva paura di dire qualcosa di troppo ad Anna che era lì davanti a lui e aveva già intuito -come solo le madri possono fare- che qualcosa di grave era successo. Io mi sono affacciata da dietro l’angolo, alla fine delle scale. Ho guardato su, Riccardo era ancora vestito da calcetto e aveva lo sguardo sconvolto. “Ghigo si è sentito male. Lo hanno portato in ospedale” ha detto tutto d’un fiato. Io gli ho voltato le spalle senza chiedergli nulla. Ho infilato le scarpe fatto le scale verso il salone a due a due, afferrato le chiavi dell’auto e mentre correvo su al parcheggio ho visto Anna immobile con le mani sul volto in un grido di dolore soffocato, ho sentito Riccardo che diceva “L’ambulanza ci ha messo tanto ad arrivare” e qualcuno che mi gridava “Tilla aspetta”.
Tendo a rimuovere le cose dolorose ma ricordo ogni singolo pensiero di quella mezz’ora con il piede sull’acceleratore della Volvo di Ghigo verso l’ospedale di Grosseto. L’ambulanza in ritardo… Quelle parole mi riempivano la testa saturando ogni pensiero e spingendomi a riflettere sul peggio. Non piangevo ma pregavo e parlavo da sola implorando di trovare Ghigo, il mio Ghigo, ancora vivo. Pensavo a tutte le ipotesi, ai danni che avrebbe potuto avere, ma cercavo di essere ottimista, immaginavo di trovarlo sveglio con il suo sorriso spavaldo e una battuta pronta. Ricordo il buio della strada mentre la sera avanzava, gli alberi scuri, i cartelli con la scritta ospedale . La macchina abbandonata al primo parcheggio, l’entrata da una porta laterale, la corsa attraverso reparti deserti illuminati dal neon. Le pareti arancioni, rosse. Scale senza anima viva la paura di aver sbagliato strada, su e giu’ destra sinistra come una pazza. Poi loro. I nostri amici. Chi seduto x terra chi addossato a una parete. Sguardi smarriti. Benito che mi viene incontro “stava meglio quando è entrato, aveva ripreso un pò di colore sul viso”. Sollievo. Pochi istanti. Un medico esce da una porta. “Chi è il padre? Chi è la moglie? Venite con me”.
Attimi sospesi. Seduta in una piccola stanza. Aspettiamo, sta arrivando Anna. “Il ragazzo non ha ripreso conoscenza nonostante tutti gli sforzi fatti”. Silenzio. Il grido di dolore di Anna, che non dimenticherò mai. Benito che chiede: “E quindi?” Il medico che risponde “non ce l’ha fatta”. Io mi aggrappo alla gonna. Resto aggrappata alla mia gonna fino a notte fonda. Poi Peppe mi accende una sigaretta, qualcuno mi consegna la fede di Ghigo. Tutto il resto è buio.
Quel maledetto 22 agosto.
22/08/2014 di Lascia un commento
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