Quando Al Jazeera l’aveva intervistata, Samia Yusuf Omar si stava preparando per le Olimpiadi di Londra. Era stata troppa l’emozione di partecipare a quelle di Pechino nel 2008, per questa atleta somala 21enne, figlia di una fruttivendola e di un uomo ucciso da un proiettile d’artiglieria a Mogadiscio. Correre la gara dei 200 metri femminili, accanto alle donne più veloci al mondo, l’aveva elettrizzata. Magrissima, rispetto alle sue colleghe, con ai piedi le scarpe regalatele dal team sudanese, Samia aveva anche sperato di vincere, per aiutare i 5 fratelli e portare onore al suo Paese disastrato. Era arrivata ultima, ma per lei era stata comunque una grandissima gioia. “Ho sfilato con i migliori atleti del mondo”, aveva detto, “e’ stato il momento piu’ felice della mia vita”. Un istante di celebrità, la breve e superficiale curiosità dei giornalisti per l’atleta sconosciuta,senza scarpe e troppo magra che veniva da una nazione in guerra perenne. Tornò presto l’oblio per Samia, che con ferma determinazione aveva cercato di ripetere l’esperienza olimpica. Le serviva un allenatore, l’aveva trovato in Etiopia dove si era trasferita partecipando anche ad alcune gare importanti. Londra non era poi così lontana. Poi qualcosa non ha funzionato e i suoi sogni sono svaniti. In Gran Bretagna Samia non e’ mai arrivata. Wikipedia scrive che sarebbe morta “in un giorno indefinito di agosto nel tentativo di raggiungere l’Italia su un barcone di clandestini partito dalla Libia”. La sua storia, crudele e difficile da verificare, è stata raccontata da Abdi Bile, anche lui un atleta, un eroe per la Somalia, oro nei 1500 ai mondiali di Roma del 1987.
“Sapete che fine ha fatto Samia Yusuf Omar?” ha detto Abdi Bile alla platea del Comitato Olimpico nazionale. No, non lo sappiamo che fine ha fatto Samia, piccola grande donna che amava correre e un giorno, forse l’ultimo, ha sognato l’Italia.
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